Atelier Lavinia Fontana

Alla National Gallery of Ireland la mostra “Lavinia Fontana: pioniera e trasgressiva celebra l’opera dell’artista bolognese che, precorrendo i tempi e trasgredendo le norme vigenti, fece dell’arte la propria professione e del genere del ritratto una raffinata forma di comunicazione. 

Aperta fino al 27 agosto nella galleria dublinese, la mostra monografica dedicata a Lavinia Fontana (1552-1614) offre al grande pubblico l’occasione di approfondire la conoscenza dell’artista bolognese e agli specialisti di esaminare le tre più recenti opere attribuite all’artista, tutte provenienti da musei statunitensi, e ammirare quelle restaurate di recente, alcune proprio per l’occasione.

L’esposizione, divisa in cinque sezioni, consente di ripercorrere cronologicamente una carriera dimezzata solo in partenza in quanto Lavinia, pur non potendo partecipare a lezioni di nudo dal vero, imparò a disegnare e dipingere nella bottega del padre Prospero Fontana.
Benché l’artista fu soprattutto pittrice di soggetti religiosi – pale d’altare per gli edifici religiosi che si andavano ampliando e moltiplicando nella Bologna postridentina e quadri di piccolo formato per la devozione privata – furono i ritratti a renderla famosa.
Concentrandosi sulla produzione di questo genere, la mostra esalta l’attenzione precisa data da Fontana ad alcuni elementi della cultura materiale Bolognese e consente di seguire l’evoluzione dello stile dell’artista, dalla maniera della scuola bolognese e veneta al naturalismo dei Carracci.

Lavinia Fontana (1552-1614), Autoritratto alla spinetta, 1577. Accademia Nazionale di San Luca, Roma.

Già nei due piccoli autoritratti esposti nella prima sala – Autoritratto alla spinetta (1577, Accademia Nazionale di San Luca) e Autoritratto nello studio (1579, Galleria degli Uffizi) – riconosciamo un’artista che lavora sul modo di rappresentarsi, sull’immagine che vuole dare di sé. Nel primo dipinto Fontana si presenta al futuro suocero, Severo Zappi, come una raffinata gentildonna con “notizie di lettere, di musica, di pittura” come auspicato da Baldassar Castiglione nel suo Cortegiano. Alle sue spalle si apre uno spazio dove in fondo troneggia un cavalletto e lungo la parete di destra si dispongono quelli che sembrano essere cassettoni da corredo. Considerando le difficili condizioni economiche in cui la famiglia versava a causa del cattivo stato di salute di Prospero, viene da pensare che non fossero esattamente colmi. Ma non ha importanza perché Lavinia, a cui il padre aveva impartito un’educazione coltivata, portava in dote talento e buone maniere. L’artista indossa un abito rosso, all’epoca colore tradizionale dell’abito da sposa, decorato con perle alle spalle dove si attaccano le maniche separate. Perle decorano anche lo scollo della sottoveste a cui è stata attaccata una gorgiera di pizzo.
Nell’autoritratto eseguito due anni più tardi, Fontana è consapevole della posizione raggiunta e si ritrae ancor più riccamente. L’abito che indossa sembra essere di un tessuto ancor più pregiato, ma le maniche sembrano essere le stesse.

Baldassar Castiglione aveva affermato che "A corte, l'abito FA il monaco!". Ma l’abito faceva il monaco anche a Bologna dove non risiedeva alcuna corte ed i suoi cittadini non erano pertanto sottoposti ad uno stretto controllo del rispetto delle leggi suntuarie.
Annessa allo Stato Pontificio agli inizi del Cinquecento, Bologna godeva di una condizione particolare e privilegiata grazie alla presenza del cardinale Gabriele Paleotti il quale, umanista prima ancora che religioso, mostrò grande attenzione e rispetto per il mondo intellettuale e artistico.
Nella prima sezione, Lavinia e gli uomini, già si rileva una considerevole attenzione da parte di Fontana a quello che studiosi e prelati indossano. Per queste personalità di rilievo dell’ambiente culturale bolognese, non immuni da desideri di gloria, Fontana aggirò i precetti del Cardinale Paleotti, per cui il ritratto doveva essere modello di virtù e non occasione di vanto, e creò l’immagine ufficiale dell’erudito divenendo la ritrattista più ricercata dagli studiosi nella Bologna di fine Cinquecento.

Lavinia Fontana (1552-1614), Ritratto di Carlo Sigonio, c.1578. Museo Civico di Modena, Modena.

Nel Ritratto di Carlo Sigonio (ca. 1578, Museo Civico di Modena), seguendo l’esempio del padre Prospero e del contemporaneo Bartolomeo Passarotti, Lavinia lascia che ambiente e gesto contribuiscano alla creazione del ritratto. Lo studioso modenese, docente di Eloquenza all’Università di Bologna, avanza la mano con le dita aperte come in dialogo con lo spettatore. Con minuzia fiamminga Fontana indaga gli oggetti sul tavolo – gli attrezzi del lavoro intellettuale. Ma altrettanto minuziosa è la resa del manto lungo e ampio, detto vesto, di damasco di seta nero foderato di pelliccia, e ravvivato solo da colletto e polsini bianchi. La descrizione del tessuto mette in risalto il nero che, scelto come colore atto ad esprimere gravitas già alla corte spagnola e consequentemente nelle maggiori corti europee, era divenuto simbolo di ricchezza. Per ottenere un nero così intenso occorreva infatti usare tinte rare e costose, come quella che si otteneva dalle radici del campeccio, un arbusto di recente importato dall’America Centrale.
La sofisticata sinfonia di neri della prima sala è interrotta da colori che mitigano l’austero stile spagnolo e segnalano un allontanamento dal modello cinquecentesco di sobrietà maschile, come le maniche rosso vermiglio dell’anonimo gentiluomo nel ritratto proveniente dal Museo di Belle Arti di Bordeaux (Ritratto di uomo seduto che sfoglia un libro, 1577-78) o le calze corallo chiaro del Conte Sassatelli (Ritratto del Conte Gentile Sassatelli, 1581, The Klesch Collection). Queste sono state così minutamente descritte da rivelare la tecnica con cui sono state realizzate - “ad aco”, cioè a maglia. Non ancora autoreggenti, le calze venivano tenute su dalla giarrettiera che scorgiamo appena sotto il ginocchio.

Lavinia Fontana ((1552-1614), Ritratto del Conte Gentile Sassatelli, 1581. The Klesch Collection.

Nella prima sala è anche esposto il contratto matrimoniale che Giovan Paolo Zappi e Lavinia Fontana sottoscrissero nel febbraio 1577. Prospero Fontana era ben consapevole del fatto che la figlia Lavinia necessitava di un marito per continuare a condurre gli affari in una società dove alle donne non era permesso, tra le altre cose, di firmare contratti. In Giovan Paolo Zappi, Prospero trovò un marito che, in un accordo più unico che raro, acconsentì ad offrire supporto all’attività della moglie, trasferendosi a Bologna dalla natia Imola e occupandosi della gestione della bottega, così che Lavinia potesse continuare a lavorare come “pittora”.
Presto cominciò a girar voce che Lavinia permettesse al marito di dipingere solo bottoni e gioielli. Lo stesso Carlo Cesare Malvasia scrisse nella sua Felsina Pittrice: Vite de Pittori Bolognesi (1678) che Giovan Paolo si era accontentato “[…] almeno di fare il sartore, già che il cielo non lo voleva pittore.”
Sebbene si conosca ancora poco dell’organizzazione della bottega di Lavinia Fontana, sembra inverosimile che l’artista delegasse qualcosa di così importante per la sua pratica artistica come la dettagliata riproduzione degli abiti, bottoni e gioielli inclusi.

Che il genere della ritrattistica bolognese abbia giovato dell’assenza di una corte, e quindi di una sola famiglia dominante, è evidente nella seconda sezione dedicata a Fontana e le donne.
Le donne delle quaranta famiglie senatorie che governavano Bologna, incuranti delle leggi suntuarie, trovarono in Lavinia Fontana l’artista perfetta per immortalare i loro abiti opulenti ed elaborati. Pertanto, come scriveva Malvasia “Garreggiarono tutte le Dame della Citta’ in volerla per qualche tempo presso di loro, trattenendola & accarezzandola con dimostrazioni di straordinario amore e rispetto […] né maggior cosa desiderando, che venire da essa ritratte.”
In alcuni casi, come nel Ritratto della famiglia Gozzadini (1584, Pinacoteca Nazionale di Bologna) tulle, pizzi, passamaneria e ricami concorrevano non solo all’esaltazione dello status sociale del committente. In questo ritratto, grande quanto una pala d’altare, Laudomia Gozzadini, a destra in primo piano, indossa l’abito rosso del matrimonio quattordici anni dopo l’evento per significare che è lei l’erede legittima del patrimonio di famiglia.

Lavinia Fontana ((1552-1614), Ritratto della famiglia Gozzadini, 1584. Pinacoteca Nazionale di Bologna, Bologna.

Insieme alla committente sono ritratti il padre Ulisse Gozzadini, che al centro della composizione veste la zimarra senatoria, e la sorella Ginevra, anche lei in abito nuziale ma bianco. Entrambi erano già morti all’epoca della realizzazione del dipinto. Alle spalle delle sorelle sono i rispettivi mariti e cugini (ma lontani) Annibale e Camillo Gozzadini, i cui abiti non sono particolarmente degni di nota. Viene da pensare che siano stati inclusi solo perché abbiano aiutato la causa di successione legittima di Laudomia e Ginevra che erano figlie naturali.
Al centro del tavolo e della scena è un cane, ma non un cane qualunque se indossa un ricco collare e orecchini. Si tratta di un esemplare dei cosiddetti cani Bolognesi, antenati dei Cavalier King Charles spaniels, diventati nella seconda metà del Cinquecento il non plus ultra del lusso in quanto più erano piccoli e più erano di valore. Pur essendo un cane da borsetta ante-litteram, il quadrupede ha qui la doppia funzione di status symbol e emblema di fidelitas. Ad accarezzarlo è Laudomia, fedele e leale membro della famiglia Gozzadini.
Due accessori legati alle cintole delle sorelle – una pelliccia di martora con testa in oro decorata con pietre preziose, chiamata sghirotto o gibellino, indossata da Ginevra, e una pelliccia di lince sfoggiata da Laudomia – potrebbero alludere ai successi e insuccessi delle gravidanze di ciascuna. Il catalogo della mostra contiene una estesa descrizione delle avvincenti circostanze familiari.
I corpetti rigidi che comprimono il torso si accompagnano a gonne la cui forma conica era data da un sostegno detto panier. Come accade con l’abito bianco di Ginevra, il voluminoso indumento consentiva di esibire tutta la ricchezza della stoffa e la complessità dei motivi.
Un motivo ancor più complesso è quello del soprabito nero che, indossato da entrambe le sorelle, non faceva parte del vestito nuziale. Detto buratto, era realizzato con un tessuto a trama larga che permetteva di vedere il vestito sottostante. Un intento simile aveva anche l’utilizzo della tecnica dello squarcio con cui in questo dipinto vediamo incise le maniche di seta di entrambe le sorelle.

La tecnica dello squarcio, insieme a quelle della dentellatura e punzonatura, aveva il risultato di indebolire i tessuti e renderli soggetti a strappi. Sebbene possa sembrare che questo non fosse motivo di preoccupazione per i ceti abbienti, i tessuti quando danneggiati venivano ridotti e riutilizzati per realizzare abiti per bambini.
Confrontando il broccato dorato della gonna indossata da madonna Alidosi (Ritratto di Costanza Alidosi, c. 1595) con i pantaloni a sbuffo al ginocchio dei due figli Gnetti nella Consacrazione alla Vergine esposta nella terza sala, Fontana e i bambini, sembra che Lavinia abbia adottato la stessa pratica di riutilizzo.

Lavinia Fontana ((1552-1614), Ritratto di Costanza Alidosi, c.1595. National Museum of Women in the Arts, Washington, DC.

Lavinia Fontanta si distinse ma non si fossilizzò nel genere del ritratto, e durante gli anni Novanta del Cinquecento, sperimentò con generi diversi e insolite iconografie. Fra le opere di soggetto allegorico e mitologico, a cui è dedicata la penultima sezione della mostra, risalta Giuditta e Oloferne proveniente dalla Fondazione Ritiro San Pellegrino, esposta accanto alla versione dello stesso soggetto recentemente restaurata del Museo Davia Bargellini di Bologna.
La storia di Giuditta, giovane eroina ebrea che salva il suo popolo dall’assedio dell’esercito assiro decollando Oloferne, offriva a Fontana una straordinaria occasione per poter sperimentare con combinazioni di tessuti reali e immaginari. L’eroina che, come narrano i Vangeli apocrifi, si era agghindata prima di entrare nelle tenda del generale e sedurlo, rappresentava infatti un’eccezione ai soggetti religiosi per cui il cardinal Paleotti raccomandava di evitare abiti lussuosi.

Lavinia Fontana ((1552-1614), Giuditta e Oloferne, c.1595. Fondazione Ritiro San Pellegrino, Bologna.

Seguendo una tendenza già inaugurata da Fede Galizia, Fontana orna Giuditta sontuosamente. Nella versione proveniente dalla quadreria del Ritiro San Pellegrino, Giuditta indossa una corazza d’oro ornata con cammei alternati in corniola e completata da un pendaglio con il pavone, simbolo cristiano di immortalità e resurrezione.
L’ornamento che incorniciando la scollatura del vestito, si restringe fra i seni e circonda la vita, richiama alla mente i costumi teatrali che, disegnati da Bernardo Buontalenti, sono esposti nella seconda sala come modello per gli abiti delle figure in primo piano di San Francesco di Paola benedice il figlio di Luisa di Savoia (1590, Pinacoteca Nazionale di Bologna).
È stato anche suggerito che il costume in stile antico di Giuditta ricordi quello indossato da Santa Cecilia nell’opera di Raffaello conservata nella Pinacoteca Nazionale di Bologna.  L’abito rosso cangiante e le maniche di velo di seta con filamenti dorati sono messi in risalto da un raffinato luminismo. Niente di meglio che una “Giuditta veduta a lume di torcio", secondo l'espressione usata da Malvasia, per far risaltare la consistenza delle sete e la preziosità dei gioielli!

Lavinia Fontana ((1552-1614), La visita della regina di Saba a re Salomone, 1599. National Gallery of Ireland, Dublino.

Le opere esposte nella quinta ed ultima sala rappresentano il coronamento del lavoro di Lavinia Fontana. Su tutte trionfa la monumentale tela de La visita della regina di Saba a re Salomone, il cui recente restauro ha ispirato l’organizzazione della mostra.
Tenendo il passo con le ultime tendenze della moda, l’entourage fa sfoggio dell’abito “francese” che si era diffuso appunto verso la fine del Cinquecento. Abbottonandosi davanti, l’abito aveva un collo alto lasciato aperto per mostrare la gola e si apriva alla vita per mostrare la sottogonna, come già visto nel Ritratto di Costanza Alidosi nella seconda sala.
La dama che al centro indica con la mano sinistra il nano, veste un farsetto argento laminato abbottonato fino alla gola molto simile a quello indossato da Isabella Ruini nel ritratto esposto nella sala precedente. Così rigido da sembrare un’armatura, il farsetto era originariamente un capo maschile – il Conte Gentile Sassatelli ne indossa uno con banda dorata nel ritratto esposto nella prima sala – ma nella versione femminile i bottoni di filigrana potevano essere riempiti di profumo.

Lavinia Fontana ((1552-1614), Ritratto di Isabella Ruini (?), 1593. Galleria degli Uffizi, Firenze.

Il confronto fra i complessi motivi dei velluti di seta broccati dipinti e i frammenti di damasco e velluto di seta provenienti dal Museo del Tessuto di Prato non fa che accrescere l’ammirazione per l’abilità e perizia tecnica raggiunta da Fontana. Per riprodurre le trame dei tessuti pregiali, quali i velluti di seta broccati e allucciolati (così detti perché’ nel velluto veniva inserita una trama in oro o argento filato), Fontana usava giallo di piombo mischiato alla biacca. La diversa quantità di biacca presente nel giallo consentiva all’artista di creare un effetto cangiante tridimensionale.
Dal museo toscano provengono anche campioni di pizzo intagliato. Ne La visita della regina di Saba a re Salomone ogni gorgiera di pizzo è decorata con un motivo differente e presenta una straordinaria qualità tridimensionale.

Il restauro della tela si è accompagnato ad un lavoro di ricerca che ha portato la curatrice della mostra, Aoife Brady, a identificare la regina di Saba e re Salomone, non con il duca e duchessa di Mantova - Vincenzo I Gonzaga e Eleonora de’ Medici - come sempre ritenuto, ma con il duca e duchessa di Ferrara - Alfonso II d’Este e Margherita Gonzaga.
Tra i numerosi indizi che supportano questa identificazione ce n’è uno strettamente legato al tema di questo articolo: le perle. Disseminate ovunque nel dipinto, le perle fanno riferimento e celebrano la duchessa di Ferrara, giacché il nome Margherita deriva dal greco antico "margarites" e significa "perla". E se centinaia di perle decorano l’abito della regina e adornano gioielli e corona (il modello del manto e la posa assunta sembrano essere studiati per mostrarle tutte), ogni singola dama del corteo indossa gioielli, fermagli e abiti impreziositi con perle; il servo di colore porge al nano una collana con quattro fili di perle; l’orologio, di invenzione, è decorato con perle; persino lo sghirotto, appoggiato sul vassoio d’argento sorretto dal servo sulla destra, indossa un orecchino di perla.
In seguito al già citato recente restauro, alcune fisionomie sono risultate talmente ben definite da consentire, se non l’identificazione, l’associazione di alcune delle gentildonne dell’entourage con altre ritratte in dipinti e disegni. Osservando quelle presenti in mostra, si ha l’impressione che le dame si siano solo cambiate d’abito per la passerella finale.

Antonella Guarracino

Art History buff. Still shooting film. Getting mail in Wicklow, Ireland.

https://antonellaguarracino.com/
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